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Quindicinale a cura dell’Ufficio Stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche
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N. 12 - 17 giu 2020
ISSN 2037-4801
Focus Fellini e Sordi
Dopo i due capolavori dei primi anni '60 - “La dolce vita” (1960) e “8 ½” (1963), il primo Palma d'oro a Cannes, l'altro Oscar come miglior film straniero - il talento creativo di Fellini produsse “Giulietta degli spiriti” (1965), “Fellini Satyricon” (1969) e “Roma” (1972). Ma il capolavoro che confermò il genio del regista fu “Amarcord”, nuovo successo internazionale di pubblico e critica, Premio Oscar nel 1975. L'importanza della produzione felliniana sta, oltre che nella straordinaria caratura artistica, nel segno lasciato a livello culturale e linguistico. “La dolce vita”, oltre a identificare il periodo del boom economico, entra nel linguaggio internazionale come espressione di uno stile di vita spensierato, gioioso; “Amarcord” diventa un vocabolo di uso comune a intendere la rievocazione nostalgica del passato.
“Com'è stato dimostrato da vari studi - mi limito a rinviare al saggio di Marco Gargiulio su 'Lingue e dialetti nel cinema di Fellini', al volume 'L'italiano al cinema, l'italiano nel cinema', a cura di Giuseppe Patota e Fabio Rossi, pubblicato dall'Accademia della Crusca nel 2017 - la lingua usata in 'Amarcord' è uno degli strumenti di cui il regista romagnolo si serve per ricreare sulla pellicola ricordi, fantasie e realtà alternative. Sebbene non vada mai dimenticato che un film è composto di tanti ingredienti e che parlare solo dei dialoghi e dei commenti fuoricampo può apparire riduttivo”, spiega Paolo Squillacioti, direttore dell'Opera del vocabolario italiano (Ovi) del Cnr. “Ma non c'è dubbio che certe espressioni, nate dall'estro di Fellini e dei suoi sceneggiatori - Ennio Flaiano e Tonino Guerra su tutti - siano entrate nel lessico comune, con un potere evocativo straordinario. Ne 'La dolce vita' compare 'paparazzo', altra parola a diffusione internazionale, che nasce probabilmente da un cognome meridionale, non si sa bene se di un compagno di scuola del regista appassionato di fotografia (come sostiene Tazio Secchiaroli, il fotografo che ha ispirato il personaggio) o dell'albergatore catanzarese Coriolano Paparazzo, che nel 1887 aveva cortesemente ospitato un viaggiatore inglese (come scrisse Flaiano, attribuendosi la paternità della scelta). Quando si ha a che fare con Fellini bisogna mettere in conto aneddotica e confusioni, e che la verità possa essere un'altra ancora. Ma è in 'Amarcord' che l'uso della lingua appare più articolato, anche per l'apporto essenziale di Guerra, poeta di Santarcangelo di Romagna e coetaneo di Fellini”.
Il film segna un ritorno alle origini cinematografiche e biografiche, attingendo molto dal romagnolo che Fellini definì “lingua dell'inconscio”. “Il titolo deriva dall'espressione dialettale “a m'arcord” ossia “io mi ricordo”. Da ricordare a margine che Pasolini, offeso con Fellini per il rifiuto di produrre “Accattone”, sosteneva malignamente che si sarebbe dovuto intitolare “Asarcurdem”, cioè “noi ci ricordiamo', tanto considerava essenziale l'apporto di Guerra. E che il retrogusto amaro dell'opera venne sottolineato dal co-sceneggiatore con l'ipotesi che, nello scegliere il titolo, Fellini avesse pensato per assonanza all'Amaro Cora, molto diffuso negli anni Trenta”, continua il direttore del Cnr-Ovi. “In realtà i personaggi parlano per lo più in italiano, per esigenze di comunicabilità con lo spettatore, ma con un'inconfondibile inflessione romagnola e usando termini dell'italiano regionale o dialettale: si pensi al polivalente patacca, ingiuria affettuosa o epiteto, alla fugaràza, il falò tradizionale con cui si dà l'addio all'inverno, alle manine, i semi piumosi dei pioppi che 'vagano qua e vagano anche là... Girollanz... Gironzano... Gironzalon... Vagano, vagano, vagano!', annunciando la primavera. Il dialetto emerge prepotente nei momenti di rabbia ('me an poss più' urla Pupella Maggio nel litigio da antologia col marito), condisce espressivamente i racconti del passato ('il ba del mi ba, il babbo del mio babbo, lo chiamavano Carnazza...', rievoca il nonno nella stessa scena), caratterizza strati sociali bassi, come i contadini nella scampagnata rovinata dallo zio Teo, un memorabile Ciccio Ingrassia, o il matto che descrive le manine. La lingua madre fa emergere gli strati profondi dei ricordi, dà voce all'inconscio, agli archetipi descritti da Carl Gustav Jung, fonte dichiarata di ispirazione per Fellini”.
Non meno importanti i registri linguistici dell'italiano. “Il linguaggio forbito dell'avvocato, storico del luogo sbeffeggiato dai concittadini, la convenzionalità dei discorsi dei professori, il piglio autoritario del preside con i suoi 'ordunque' e 'orbene', la retorica tronfia dei fascisti”, prosegue il ricercatore. Ci sono poi gli inserti di altre varianti regionali. “Indimenticabile l'inflessione campana dei professori di storia e di fisica ('che cos'è questo? ... ve lo dico io: è un pendolo. L'avete visto tante volte anche nelle vostre case, l'orologio a pendolo. E come fa? Come fa? Tic tac tic tacì), o del gerarca fascista in sedia a rotelle che commenta sconsolato la punizione all'olio di ricino inflitta a un sovversivo: 'È questo che ci addolora. Questa ostinazione a non voler capire. Ma pecché? Ma pecché?'”, conclude Squillacioti. “Una commistione sapientissima di usi linguistici, che rappresenta il corrispettivo verbale delle immagini e delle musiche del film, e che trova una sintesi perfetta in Gradisca, interpretata da una sensuale Magali Noël: un soprannome nato dall'utilizzo improprio dell'espressione formale che usualmente si riserva per l'offerta di un pasticcino o una bevanda e che la donna, emozionata, usa per offrire il proprio corpo al principe di Casa Savoia in visita a Rimini. Il matrimonio finale con un carabiniere e il trasferimento a Battipaglia, proprio in quel Sud da cui provengono gran parte dei personaggi non-romagnoli, è il segnale che con la cerimonia finisce non solo il film, ma un intero mondo di ricordi e fantasie”.
Edward Bartolucci
Fonte: Paolo Squillacioti, Opera del vocabolario italiano , email squillacioti@ovi.cnr.it -