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Mensile a cura dell’Ufficio Stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche
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N. 16 - 15 dic 2010
ISSN 2037-4801
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"Questo premio è senz'altro un traguardo significativo per il Gruppo che rappresento, ma è anche un'importante riconoscimento all'Italia che innova". Si schermisce, Mario Moretti Polegato, sul premio ‘Innovatore dell'anno', ricevuto a Londra dopo una selezione tra oltre 200 aziende di tutto il mondo: la sua Geox è stata considerata quella più tecnologicamente all'avanguardia. Un primato difficile da contestare per un gruppo passato, in quindici anni, da cinque persone a trentamila addetti, interni o esterni, e per un uomo che ha inventato un sistema di traspirazione delle calzature che lo ha reso il secondo industriale al mondo nel settore.
Un risultato ottenuto, tra l'altro, partendo da un percorso professionale molto diverso e grazie a un investimento in ricerca del 2% del fatturato (che è di 860 milioni di euro), cioè la quota indicata a Lisbona come media per gli imprenditori dell'Unione Europea, ma dalla quale i ‘privati' di casa nostra sono abissalmente lontani. Quanto Mario Moretti Polegato sia vicino alla ricerca lo ha confermato anche facendo visita al Cnr, dove ha tenuto una lectio magistralis ai ricercatori impegnati nel trasferimento tecnologico.
Modestia a parte, l'Innovator of the Year è un riconoscimento di grande importanza.
È un grande premio per nostra azienda, per tutti quelli che lavorano ai nostri progetti, per i ricercatori nostri partner negli enti e nelle università italiane e straniere. Noi abbiamo anticipato il concetto di innovazione come base del made in Italy. D'altronde un imprenditore non si adatta al sistema, lo anticipa, e noi con la nostra scarpa, più che un'innovazione, abbiamo fatto una rivoluzione.
In un Paese dove le aziende in media investono in ricerca e sviluppo lo 0,4% del Pil.
È vero, ma non dobbiamo dimenticare che l'italiano è un creativo, ha la fantasia nel Dna, anche quando fa il poeta, l'artista, lo dimostra la nostra storia. Ci manca però la capacità di gestire questa creatività e qui devono intervenire i soggetti istituzionali: la formazione, le categorie, la politica.
Eppure, per un Paese votato al manifatturiero, la competitività può passare solo per l'innovazione, non crede?
Certamente: non possiamo più affrontare la concorrenza a colpi di prezzi, dobbiamo dare valore aggiunto al prodotto. Innovare è l'insieme di tre fattori: si parte col sogno, cioè creare o modificare un oggetto, poi bisogna tutelare la propria idea a livello brevettuale - e questo spesso è già un tabù per i piccoli e medi imprenditori - e infine sperimentarla. Qui, di nuovo, il singolo imprenditore non ha quasi mai la forza finanziaria e la capacità culturale necessarie e allora deve intervenire la collaborazione col mondo della ricerca e delle università.
Dunque pensa sia preferibile creare una filiera tra imprese e ricerca, più che innovare direttamente in azienda?
È una deduzione logica. Ma un'altra questione è prioritaria in questo momento: come coinvolgere la politica? Come ottenere che si aiuti il Paese mediante la formazione dei giovani, che sono i più ricchi di idee, senza dare i pochi aiuti a pioggia?
Forse la formazione è ‘bloccata' anche dalla vecchia rivalità tra sapere umanistico e scientifico?
Io credo che colui che inventa, crea, innova non abbia un'appartenenza in un senso o nell'altro. È importante sia comprendere l'importanza di dare ai nostri figli un titolo di studio, sia rendere sempre di più le aziende agenzie culturali. Anche l'innovazione industriale è cultura, un'idea vale più di una fabbrica.
Il suo successo può testimoniare che l'innovazione paga in termini di bilancio?
Per aiutare le aziende e combattere la crisi economica sostenere l'innovazione d'impresa serve più che abbassare la pressione fiscale. Ma serve anche la capacità di credere e rischiare, perché non tutti i progetti riescono, spesso anche noi portiamo avanti dei progetti per poi renderci conto che dobbiamo cambiare percorso.
Lei come andava a scuola nelle materie scientifiche?
Ho avuto una vita di studente particolare, cominciata in un collegio religioso molto rigido. Poi ho studiato Agraria, per la precisione enologia, perché la mia famiglia ha un'aziende vinicola, ma capivo che non era l'ambiente per me. Soltanto a quel punto ho cominciato ad avvertire il fascino della ricerca e a studiare: per accorgermi di quanto sono ignorante, come suol dirsi. Non avevo mai studiato Scienza dei materiali, in cui adesso ho ricevuto una laurea honoris causa all'Università di Venezia...
Una ricerca che le piacerebbe arrivasse a compimento, in un settore diverso dal suo?
Nel campo della medicina e della farmacologia, certamente, per allungare ulteriormente la speranza di vita. Poi, accanto a questo obiettivo primario, c'è quello di migliorarne le condizioni e in questo anche noi possiamo dare un contributo nel campo che ci compete. Non vogliamo solo portare la moda italiana nel mondo.
Marco Ferrazzoli
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